Uno dei quesiti sui quali siamo chiamati a esprimerci – nel referendum del 12 e 13 giugno – riguarda l’abolizione della privatizzazione della gestione dell’acqua potabile. Di questo referendum, tuttavia, si parla poco e, quando se ne parla, lo si fa soprattutto tramite slogan invece che riflettere concretamente sulle problematiche in gioco.
I risultati del referendum potrebbero avere conseguenze tangibili in tempi relativamente brevi, dato che la legge Ronchi sulla privatizzazione della gestione dell’acqua deve essere attuata entro il 31 dicembre di quest’anno. I motivi alla base di questa legge sono abbastanza chiari: mediante la concorrenza tra società private o miste (pubblico-private) nell’assegnazione della gestione degli acquedotti, si intende migliorare l’efficienza del servizio e, possibilmente, ridurre i costi complessivi. Naturalmente non c’è nessuna garanzia che tali obiettivi possano essere centrati perchè i fattori in gioco sono tantissimi. Esperienze fatte all’estero hanno evidenziato risultati contrastanti: buoni, ad esempio, in Francia e deludenti in America Latina.
I motivi dei promotori del referendum contro la legge Ronchi possono essere riassunti nei seguenti due punti: tutalere l’acqua preservendola per le prossime generazioni; evitare che l’acqua diventi una merce che garantisce profitti ai privati. Penso che più che il timore di un deterioramento delle risorse disponibili da parte dei privati, queste argomentazioni riflettano soprattutto una diffusa sfiducia verso l’ente pubblico, il quale deve gestire gli appalti garantendo – tra le altre cose – la necessaria trasparenza (evitando, ad esempio, che tali appalti diventino motivo di guadagni illeciti), l’erogazione a tutti gli utenti, e la qualità dei trattamenti di purificazione. La legge Ronchi – va peraltro sottolineato – recepisce una normativa europea e per il Trentino non è propriamente una novità, dato che la gestione – ad esempio – dell’acquedotto di Trento è già garantita da una società mista. Il quadro, tuttavia, è assai dinamico anche da noi: i risultati del referendum potrebbero modificare o confermare ulteriormente gli attuali assetti.
Alla data dei referendum mancano ancora un paio di mesi. Volendo il tempo per stimolare un’ampia ed efficace riflessione pubblica, basata su informazioni e argomentazioni precise, c’è ancora tutto. Mi auguro che ciò venga fatto, per evitare che a vincere sia l’inerzia. Quell’inerzia, cioè, che porta a preferire l’immobilismo, anziché cogliere un’opportunità di partecipazione alle decisioni e, eventualmente, di cambiamento dello status quo.
(dal Corriere del Trentino del 21 aprile 2011)
Il concetto di merce mi sembra ben confuso.
Anche il concetto di proprietà e possesso.
Il fatto che l’acqua sia gestita da un ente a CAPITALE sotto controllo pubblico o privato non ne cambia la sua natura di merce, ossia veicolo del lavoro sociale.
Il fatto che ci sia un monopolio e che vada a vantaggio di questo o quello è un’altro discorso.
sul blog http://www.osmosiinversa.blogspot.com il concetto è più sviluppato.
Al festival dell’Economia di Trento, il prof. Massorutto ha cercato di chiarire i termini della questione:
1) Non si deve parlare di privatizzazione dell’acqua, ma di obbligo di gara. Anche con vittoria dei SI non ci sarà divieto per i privati perchè la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere comunque effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista.
2) Se vince il SI anche sulla seconda domanda non si avrà acqua gratis per tutti. Se la tariffa non ripianerà le spese della gestione, ci penserà la fiscalità generale.
E numeri alla mano (sulle perdite degli acquedotti, la necessità di investimenti futuri etc.) il professore ha cercato di spiegare l’importanza della presenza dei privati nella gestione degli acquedotti.
Bon. Niente da fare, il confronto l’ha vinto indubbiamente il prof. Mattei (un giurista) che gli faceva da controparte. Il quale non ha parlato con dati o argomenti ma con la pancia, con la foga del sentimento.
Avanti così Italia: finchè la fiscalità generale ci farà impazzire di tasse o il debito pubblico esploderà. Amen.
Sono sostanzialmente d’accordo con Antonio. La debolezza della legge sottoposta a referendum sta nell’obbligo di privatizzare. Nessuno dubita che sia giusto ci sia la facoltà di farlo, ma l’obbligo è francamente troppo (e la facoltà c’era già prima, tant’è che molte aziende sono già private o miste, e rimarrà la possibilità anche se il referendum abrogasse la norma).
Poi c’è la balla dell’Unione Europea, che giustamente ci costringe a prevedere la possibilità di privatizzazione (per l’Italia era già vero), non che sia obbligatorio farlo come coloro che hanno approvato la legge vogliono far credere.
Peraltro se fosse il recepimento di una direttiva comunitaria, il referendum sarebbe ovviamente illegittimo. Se si fa, vuol dire che qualsiasi sia l’esito non c’è nessun problema di vuoto legislativo, neanche nei confronti dell’UE.
Grazie Flavio. Il tuo commento mi induce una riflessione sul diverso atteggiamento italiano verso le liberalizzazioni promosse dall’Unione Europea.
Nel caso degli acquedotti l’Italia è stata – da quello che capisco – garibaldina, e si è spinta più avanti di quanto intendesse l’UE.
Nel caso dei trasporti ferroviari, invece, ha il braccetto corto e interpreta le direttive UE nel modo più restrittivo in modo da impedire una concreta minima liberalizzazione (si veda la questione delle ferrovie tedesche in italia).
Chissà perchè…
Per i lettori “trentini” (ma non solo) vorrei segnalare che:
1) il 54% delle utenze è servito da gestioni dirette – i comuni, consorzi, ..
2) un altro 40% delle utenze (i comuni di Trento, Rovereto e altri 15 comuni) è gestito da “Dolomiti Energia”, al 60% circa pubblica (privati: Ft energia, A2A, Fondazione Caritro, ISA) in perfetto accordo col “vecchio” decreto Ronchi, ora abrogato dal referendum
3) l’ultimo 6% è gestito da altre Spa.
La Provincia di Trento aveva già recepito, in parte, il decreto Ronchi: anche le Spa “dovrebbero” aprirsi al mercato (le gestioni dirette erano state lasciate fuori da questo obbligo). Cosa succederà ora che l’apertura al mercato è stata abrogata dal referendum?